domingo, 31 de mayo de 2009

per un'esperienza veramente terrena





Pentecoste 2009

PIUS CREDULITATIS AFFECTUS

“dolcezza nel credere che ci fa percepire le “cose spirituali” come reali


Mi colpisce questa affermazione perché la percepisco come cosa “interessante per me e per la mia vita.

Da qualche parte in me questo afflato resiste ai grigiori e ai cambiamenti, alla poca canonica vita religiosa tradizionale.

Ma subito vorrei che qualcosa aiutasse me, aiutasse il genere umano affinché questa distinzione secca tra cose spirituali e del mondo scemasse, perché cielo e terra sono in effetti un'unica realtà.

Questo è il REALE, non voglio (desidero?) percepire come separata l'esistenza mondana da quella spirituale. È una questione di profondità né verticale né orizzontali. Ha a che fare con la pienezza della GIOIA. Non dobbiamo avere bisogno di altezza nominalistiche (“questo è lo Spirito”) per dare valore alle cose o screditarle.

Esse sono; in sé, per sé e in relazione tra loro.

È il contatto con questa Unità che fa della dolcezza del credere un sentimento di GIOIA profonda.

Se non sono in contatto non son né spirituale né mondano, non partecipo all'Essere in sé, faccio l'esperienza della separazione (dìa-ballo) e quindi apro le porte al male.

Infatti le strade per la percezione e il vivere in sé , per sé interrelazionatointerrelazionato possono essere molte, e non tutte possono essere all'occhio umano secolarizzato definite “celesti”, “spirituali”.

Recentemente ho trascorso una settimana di formazione a Trento e a Sasso Marconi; ho fatto un “bagno” nella Gente e nel _Nuovo. Queste dimensioni mi hanno fatto sentire Presente a me e agli altri. Non è stata una pratica ascetica o celeste dir ci voglia. Banalmente (ma non lo è in sé) è stata un'esperienza Umana di Umanità, nell'Umanità e per l'Umanità.

Questa dossologia di sapore liturgico è un ottimo indicatore delle cose “celesti” (canonicamente intese) ma è al contempo una profondità (Umana) del sé senziente.

Da-sein, esser-ci.

Vorrei specificare che questa unità mistica non credo abbia a che fare con il desiderio nirvanico del Nulla.

Direi piuttosto che è una qualità della VITA PIENA.

Non piena di cose, di esperienze, di persone (questo è un processo di reificazione da distinguere da quello che cristianamente chiameremmo Incarnazione) ma piena perché sto nel posto in cui sono con quello che sono in quel momento.

Scolasticamente diremmo che siamo nella Sostanza con una certa indifferenza degli Accidenti.

È evidente che il Vuoto crea paure lontane ed antiche. Tanto che l'attrazione verso il vuoto viene dato nella sintomatologia di chi soffre di vertigini.

È un'attrazione “terribile” perché fa perdere.

Però al contempo è proprio l'esperienza del perdersi che avvicina alle esperienze più forti di Amore.

Non si tratta di un lavoro meticoloso di cesellatura dove le imperfezioni vengono levate verso la perfezione.

Questo processo prevede un'orizzontalità diacronica di sviluppo, tanto cara all'occidente progressista. Io credo che il vuoto invece preveda dei “salti”.

Nella amniotica placenta dell'esperienza della vita ondeggiamo in diverse direzioni e il cadere nel vuoto con l'incredibile esperienza del perdersi può essere il preludio generativo della Vita.

È un vuoto anticamera di maggiore Libertà, di nuove indipendenza. E questo può avvenire nella temporalità lineare, ma ci sono eventi puntuali che richiamano la necessità di questo vuoto generativo.

Penso che l'ipertrofia della visione cristianocentrica (non Cristocentrica) abbia mutato la pre-credenza della Resurrezione (già i Farisei in contrasto son i Sadducei la affermavano in un tentativo annichilente di coprire l'emblema mitico del Vuoto: la Morte.

Per cui la fine dell'esistenza terrena diventava un'insopportabile contraddizione che trovava un completo disvelamento nell'esistenza di un'ultra-terrenità eterna.

E di nuovo Terra e Cielo dove questi rischia di valere di più, legittimando condizioni inumane della vita terrena per un bene superiore. Ma il Gesù risorto è il Gesù che camminava in Galilea, è Gesù in sé, prima e dopo, mettendosi a cucinare pesce sulle rive del lago per gli increduli apostoli, santificando così la quotidianità terrica.

Questo mi farebbe parlare quindi di un altro senso della Risurrezione e della Vita Eterna. Fondamento dell'Esistenza in sé , per sé e per gli altri...non accidenti della Vita celeste Ultra-Terra post-mortem.

La domanda che mi pongo e che vorrei cominciare a porre sempre più è : quali e quante esperienze di morte ho fatto nella mia vita?

Molte micro-morti. Le esperienze dei fallimenti, delle relazioni che si chiudono, dei mancati legami familiari, dei tradimenti...

si sosta nel Vuoto con la Paura che da lì non usciremo MAI.

Quindi...poi: quante e quali esperienze di resurrezione ho vissuto?

Ogni volta che quel vuoto non è stato per Sempre.

Rimane la Morte con evento considerato “finale” (forse finalizzante sarebbe più corretto) dell'esistenza (terrica). Senza questo limite naturale nulla sarebbe percepito come dotato di senso. Tutto sarebbe bistrattamente equivalente.

Porre termine a una vita è terribilmente tragico non tanto per la quota di dolore che comporta a chi la subisce, ma per la perdita del limite naturale che da senso all'esistenza (le donne che non riescono più a rielaborare aborti perdono la bussola del proprio esistere, non è solo “senso di colpa”).

Si potrebbe affermare per assurdo che amiamo perché sappiamo che possiamo uccidere ed essere uccisi.

Da qui la entropica ricerca dell'Amore Idealizzato capace di andare oltre la Morte; ma spesso questo processo eidetico porta Oltre, nel senso di lontano( non Ulteriore) dalla Vita, creando così l'anticamera di una morte terrena prima di quella terrica.

Si ammazza, ci si toglie la Vita per Amore. L'Amore può non bastare, forse dovremmo scendere da alcune supponenze metafisiche e realizzare un atterraggio nel Principio di Realtà per ottenere un sano “disincanto” dell'esistenza.

Spesso siamo Zombie, morti che camminano che non sanno di essere morti.

Allora la Vita Eterna è l'accidente totalizzante della Vita Piena in sé, per sé e per gli altri.

Facciamo esperienza di Vita Eterna quando non conduciamo più la distinzione sull'orlo del vuoto come se fosse un baratro senza fine, ma quando respirando continuiamo a creare vuoti e pieni nell'unica condizione possibile di Vita: quella terrena.

Di nuovo Cielo e Terra si incontrano (ma non si erano mai congedati, è il nostro giudizio a distaccarli per giustificarci cognitivamente la nostra fatica di percepirli uniti) in momenti puntuali che da soli giustificano [non di redenzione ma di resa di giustizia] la pienezza della Vita.

Così non si ha più paura della morte terrica pperché si è scorto che è di gran lunga più terribile quella terrena....



Tradate, venerdì 29 maggio 2009